È in quel periodo che si palesa un imprenditore che è interessato a rilevare la ditta. È un freddo pomeriggio d’inverno. Uno di quelli in cui nemmeno alle due del pomeriggio si riesce a spegnere il neon in ufficio. Tutto è grigio.
L’esperienza mi ha insegnato una realtà inequivocabile. Tutto quello che tocca il Ciccio va a finire inevitabilmente in vacca. È inutile credere che questa volta sarà diverso. Ormai sono troppi i precedenti.
È lui che è deciso che vuole vendere tutto:
“Non voglio fare questa vita di merda per altri venti anni. Sempre pieno di debiti. Ma che cazzo di vita è? Dimmelo”.
Viene spontaneo chiedersi che cosa voglia fare della sua vita, uno che passa i pomeriggi chiuso in ufficio a giocare a carte o a battaglia navale sempre al telefono. Talmente cazzone che non si premura nemmeno di nascondere la finestra del PC quando qualcuno entra in ufficio, oppure che mentre si apre la porta guarda l’interlocutore e poi spinge sulla tastiera con un ritardo persino inquietante. Non gli interessa nemmeno fingere che gliene freghi, anzi vuole sbattere in faccia a tutti il suo disprezzo per quel lavoro indegno.
“Scusa Carlo puoi venire sull’impianto? C’è un articolo che sta venendo di scarto. Potresti venire a darci un occhio?”.
La risposta è una sonora bestemmia, la sedia con le ruote che viene sbattuta contro il muro e la porta dell’ufficio che sbatte. Rituale sempre identico, tutti i santi giorni.
A quest’azione del Ciccio corrisponde la sempre identica reazione di mio padre:
“Vai a vedere che cos’ha”, e io che piuttosto che andare ingoierei del cianuro in lingotti, ma ubbidisco. Tutte le volte vengo mandata a misurargli il polso come al capezzale di un morente. Preferirei io morire piuttosto che andare da quella bestia a chiedere con aria affranta:
“Che cosa c’è che non va?”.
Invece lo faccio, per piacere a mio padre. La sua, è una disperazione scenografica, fittizia. L’ho sempre saputo. Non è rilevante per lui che tu gli risolva l’inghippo del momento e che quindi per merito tuo lui se ne possa tornare dentro il suo ufficio a scaccolarsi mentre sta al telefono. Nessuna forma di benché minima riconoscenza. È qui che esce il demonio. La riconoscenza esige un prezzo che lui non vuole pagare, mai. Che lo si aiuti o no il risultato sarà sempre il medesimo. Perché a lui non interessa risolvere. Racconta che questi imprenditori vogliono comprare la ditta perché sono “persone che intendono aiutarlo, loro”. Nonostante io gli chieda se per caso sta facendo uso di droghe pesanti perché è impossibile credere a questa favoletta, lui insiste. Sono amici, che hanno capito la sua sofferenza e che quindi si sacrificheranno pur di sollevarlo da questo peso insormontabile che la sua famiglia cattiva gli ha addossato. Un vero delirio. Ma se non ti opponi anche il delirio più aberrante prende il sopravvento sulla realtà e ne diventa la sua rappresentazione.
Arrivano i benefattori con tanto di macchina fotografica e metro alla mano. Guardano in tutti gli angoli senza alcun ritegno. Sembra già roba loro. Noi seguiamo questa allegra combriccola davanti al gioco nuovo, come se stessimo dietro al feretro che si incammina verso il cimitero. Mio padre ha la faccia viola, sembra che stia scoppiando, che gli stia venendo un infarto. Questi parlano, parlano. È come se conoscessero già tutto. Come se quello che ha fatto mio padre per quarant’anni, svegliandosi tutte le mattine alle quattro fosse solo uno stupido dettaglio. Non riesco a tacere davanti a quest’arroganza strafottente: “Non si diventa comunque cromatori in un pomeriggio, penso che questo sia abbastanza evidente…”.
Lo scagnozzo dell’imprenditore risponde allargando le narici: “S’impara tutto nella vita, anche cose molto più complicate”.
“Ma che ti pigliasse un accidente secco, brutta faccia di merda” penso. Ma sorrido. A Charlie non è piaciuto quello che ho detto, me lo fa capire con un’occhiata. Mentre lo guardo mi domando come sia possibile che quella mezza sega insista senza ritegno a leccare il culo peggio di una puttana a quegli stronzi. Attaccata al termosifone vicino alla finestra, mentre volto le spalle alla delegazione, e guardo la campagna spoglia e immersa nella nebbia, non riesco a pensare ad altro:
“Perché deve avere così poca dignità quell’uomo. Perché, uno che dovrebbe essere sangue del mio sangue, mi fa così schifo”. Mio padre sempre più viola e taciturno sta incassando valanghe di umiliazione, dal suo erede. Restano seduti e discutono per troppo tempo, poi finalmente anche quel pomeriggio finisce.
“Dovrebbero darci circa 2.500.000 euro”.
“Beh, insomma” penso che poi tutto sommato non sarebbe male, anche se magari un po’ svenduta. Ma per mio padre nessuna cifra potrebbe bastare. È come se gli chiedessero di vendere suo figlio.
Poi, dopo alcuni giorni, Carlo ritratta, come da cliché:
“Ci sono troppi debiti. Hanno guardato i bilanci… Ma a me che cazzo me ne frega. Io gliela do anche gratis. Basta che se la prendano”.
So che queste parole stanno uccidendo mio padre, ma non comprendo la sua incapacità di reazione. Finge di non credere che la sua creatura stia passando di mano. Sa che tutto questo mi fa stare male e cerca di alleviarmi il dolore con bugie che sta raccontando anche a se stesso. Non vuole guardare in faccia la realtà. Perché gli fa troppo schifo.