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GLI AVVOLTOI AL BANCHETTO

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VIA I VECCHI ATTORI ENTRANO I NUOVI

Appena dopo che si era ammalato, gli erano state ributtate addosso tutte le quote della società.

Forse proprio perché sapevano, il commercialista e suo figlio, che a breve sarebbe morto, che la diagnosi non lasciava scampo. Quelle quote sembrava che avessero la peste. Non stavano mai ferme. 

Ora si erano posate come avvoltoi accanto al moribondo nell’attesa che esalasse l’ultimo respiro.

Era il preludio di quel piano concertato e rimasto “dormiente” fino a che non si era presentata l’occasione giusta per porlo in atto e bruciare in qualche modo tappe che avrebbero richiesto tempi più lunghi.

Gli eventi che sono seguiti a questo, si sono succeduti con una rapidità mostruosa. Davanti ai nostri occhi increduli e inconsapevoli con una finta vendita all’asta avevano passato a un nuovo socio occulto impianti e attività.

A questo punto mi era stato chiesto di dare le dimissioni.

Era poi stata la volta di mio padre.

Un pomeriggio d‘inizio novembre, seduto sul divano mi aveva dovuto confessare quasi soffocato dalla tosse, cercando di trattenere la disperazione che si respirava, tanto ce n’era in quella stanza, che non poteva più andare nella sua fabbrica e che gli avevano anche tolto lo stipendio.

Ho visto davanti a me un uomo indifeso e sconfitto che cercava di giustificare con me, un gesto che nemmeno lui sapeva giustificare a se stesso. 

Gli avevano detto che era necessario. Lo avevano detto anche a me. Carlo, il vero mandante di questa estromissione, non aveva avuto lo stomaco di dirlo a suo padre. Da vero traditore aveva mandato dei sicari a fare il lavoro sporco.

“Via i vecchi attori, entrano i nuovi sulla scena”.

Erano andati a scomodare persino il teatro.

Che poi non era nemmeno vero, visto che il Ciccio se ne stava ancora dentro e lui era uno dei “vecchi attori”, il peggiore.

Avevo risposto a mio padre, che se quello era il prezzo da pagare per andare avanti, doveva mettersi “sta fetta di coglione in tasca”.

Mi aveva guardato con gli occhi imploranti e disperati di chi cerca comprensione davanti a un’ingiustizia. Avevo alzato un muro per non sentire il dolore di quello sguardo, ma non avevo mosso un dito. Non ero andata da Carlo a dirgli che era una merda, che tutto poteva fare ma non uccidere quell’uomo già così malato.

Che era da pusillanimi, da miseri, colpire chi non riesce più a difendersi.

Invece non ho mosso un dito. Supponevo che questo sarebbe stato il prezzo da pagare per uscire da quel mare di debiti, in cui non sapevo nemmeno io spiegarmi come ci fossimo finiti, e di cui mi si era sempre e solo parlato, ma che non avevo mai potuto verificare con documenti alla mano.  E non immaginavo che fosse stato tutto studiato a tavolino.

Mio padre mi chiamava tutte le mattine, disperato, dicendomi che non sapeva che cosa fare, che sarebbe andato a cercarsi un altro lavoro.

Voleva che lo aiutassi.

Io, invece, non ho fatto niente.

Stava male perché non poteva più andare nella sua fabbrica, nella sua vita.

Alle dieci di ogni mattina, con le gambe appesantite dalla malattia, si fiondava dentro un centro commerciale a fare quello che non avrebbe mai voluto fare nella sua vita. Il pensionato. Il sabato e la domenica, come un ladro, andava a passeggiare dentro al suo capannone deserto.

Vedeva quei pochi operai che facevano manutenzione. E tutti tacevano, facendo finta di niente, io per prima.

scromata

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