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FIDEJUSSIONE OMNIBUS EREDITA'

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BENVENUTA NELL'UNIVERSO DELLA TRUFFA

Comunque, uscita da quell’inferno di gente schifosa, quando credevo che il peggio si fosse esaurito, scopro che sono esposta personalmente alla centrale rischi della Banca d’Italia per 840.000 euro.

Si tratta di una Fidejussione Omnibus.

Non sapevo nemmeno che cosa volesse dire.

Meno male.

Chiedo a Carlo come cazzo sia possibile. Come potevo non saperlo.

Non ricevo che balbettii e rassicurazioni talmente poco incisive da farmi rabbrividire.

Una sera, mentre si mette al polso l’orologio d’oro massiccio di mio padre, con la serafica paciosità del predatore che ormai ha conficcato gli artigli sulla preda, si affretta a dirmi guardandomi nelle ballotte degli occhi, mentre si sta decidendo insieme sulle questioni burocratiche del “dopo sepoltura”, seduti a quel tavolo di cucina che ci aveva visto per tanti anni riuniti a pranzo e a cena tutta la famiglia:

“Tu devi rinunciare all’eredità. Poi ho io un piano per renderti la tua parte, sottobanco”.

“Eccoci qua” mi viene da pensare.

Sta leccandomi il collo prima di affondare i denti nelle mie carni.

Io sto fingendo di essere già morta.

Invece sono viva e insieme a un forte senso di nausea e di schifo per quell’essere che vedo di fronte a me, mi sento sprofondare nella sedia in cui sono seduta, come quando si apriva la botola nel gioco del Castello Incantato.

In quel preciso istante vedo in faccia per la prima volta non più un parente ma un delinquente che cerca di raggirarmi ancora una volta.

Esco da quella casa che era dei miei, e so dentro di me che della mia famiglia non è rimasto più nessuno.

Giro per le banche con cui avevamo lavorato alla ricerca di quel documento che testimoni questa inconsapevole sottoscrizione della mia rovina. 

Lo trovo quel cazzo di documento.

Scendo nel sottoscala della Banca, dove c’è il cuore pulsante dell’attività. Dove si decidono le sorti delle imprese. Un posto che ricorda tanto le tane dei topi di fogna.

Un funzionario mi consegna una fotocopia.

Seduta in quell’umido scantinato rileggo freneticamente quel pezzo di carta.

C’è qualcosa che stona.

Accanto alla mia presunta firma, la data: 08/08/08.

Il giorno d’inizio delle Olimpiadi. La mia mente corre veloce. Mi rivedo distesa nella stanza di un albergo in Sardegna mentre guardo i collegamenti del telegiornale con la Cina, appena rientrata dalla spiaggia. Non posso avere firmato se ero in vacanza.

Sul momento non riesco nemmeno a tacere la mia sorpresa:

“Ma, mi scusi, io non ero qui in questa data”.

Questo contadino con la cravatta e l’accento ferrarese mi risponde:

“Sì ma signora è irrilevante, qualche giorno prima o qualche giorno dopo, è la stessa cosa”.

840.000 euro e una data in cui non ero lì sono irrilevanti?

“E’ roba da avvocati, ma di quelli bravi” mi dice uno a cui chiedo consiglio.

A quanto pare la data non era così irrilevante. Anche questo è un tassello che va a confermare la presenza di un piano ben congegnato, in cui è stato deciso quali dovessero essere le vittime da sacrificare. Quelle quote che rimbalzavano come una pallina magica erano finite prima addosso a me e poi a mio padre per potere dare sostanza a questa fideiussione. Il commercialista e Carlo mi hanno volutamente messo in mezzo. Benvenuta nell’universo della truffa. 

“Prima di qualsiasi azione chiami suo fratello, perché non vorrei che ci mettessimo di traverso, se lui sta perseguendo un piano di salvataggio dell’azienda di famiglia”.

L’avvocato che ho interpellato dice le parole che vorrei sentire, anche se comincio ad avere sempre più la consapevolezza che mio padre e anch’io siamo stati estromessi per lasciare loro la completa libertà di azione.   

“Sai Carlo, l’avvocato dice che quella firma si può invalidare. Capisci? Finalmente una bella notizia”.

“Sì, ma così metti nella merda me”.

Questa risposta mi perplime. In fondo non riesco ancora a credere che lui sia quella bestia che è. Perché mai metto nella merda lui, se cerco di riconoscere la falsità di questa fideiussione. Non trovo risposte soddisfacenti.

“Ma guarda, che io non ho mai avuto nessuna intenzione di metterti in difficoltà. Appunto per questo se andiamo dal mio avvocato al più presto a spiegare il piano che avete, così nessuno ci rimette. Sia chiaro che non voglio fare il male di nessuno. E tu lo sai. Ma, non è nemmeno giusto che mi tenga una fideiussione del cazzo di 840.000 euro, ti rendi conto?”.

Il mio desiderio di sistemare tutto, di svegliarmi e accorgermi che lui non è un mostro, che mi sono fatta solo delle paranoie non riesce a trovare concretezza.

“Beh, che cazzo vuol dire? Mica te li vengono a chiedere quei soldi. Ce l’ho anche io.”

“Ah ma se quando te l’ho chiesto mi avevi detto che non ti ricordavi che l’avessi?”

“Va beh ho già capito. Adesso mi metti nei casini, dio B…”

Riaggancia.

Viene la primavera e ancora nessuna risposta da parte sua, né nessuna spiegazione sul presunto “piano industriale”.

Certo che me l’aveva detto lui, che aveva un piano per farmi riavere la mia fetta di eredità. E allora spiegati, qual è il problema. Il problema è che la verità non me la può dire, tanto varrebbe che mi uccidesse.

Intanto voci insistenti dei commercialisti che gravitano attorno a lui, continuano a dire che il piano sta nel fare fallire la società.

Se così fosse, io sono nella merda fino al collo avendo addosso questa garanzia personale e essendo pure morto mio padre. Significa avere il futuro ipotecato per sempre.

E’ come se mi avessero legata e imbavagliata dopo avermi stordito. Cerco di liberarmi, per una sorta di istinto di sopravvivenza anche se ancora non ho ben capito che cosa mi abbiano fatto. 

L’avvocato sembra avere le idee più chiare.

Manda una lettera alla Banca in cui comunica che non potevo avere firmato quella lettera in quanto non ero in quel luogo in quella data. E qui si aprono i sarcofaghi ed escono gli zombi.

Mi chiama il funzionario che ha seguito la mia pratica:

“Che cazzo vuol dire questa lettera. Guarda che se non la ritiri immediatamente te la faccio vedere io.“

“Scusi ma chi parla?”

“Oh! Non fare mica la furba. Lo sai benissimo chi sono. Adesso con i coglioni in mezzo alla porta non ci sei più solo te, ci sono anch’io”.

Il bello è che io non sapevo veramente chi fosse, lui invece sì. Mi sembra di essere in un film, brutto però, con una sceneggiatura degli anni settanta malriuscita.

Forse sono Alice nel Paese delle Meraviglie, ma com’è possibile che uno che maneggia tutti i giorni i soldi degli altri abbia meno sangue freddo di mia zia di ottantacinque anni. O forse ho toccato senza volere un nervo scoperto.

Sono quasi divertita a sentire sto stronzo.

“Senta, io non ho niente da dirle. Se vuole può parlare con il mio avvocato”.

Anche questa l’avevo sempre sentita dire nei film, fa sempre il suo effetto.

Mi stupisco che mi sia venuta in mente.

E’ la prima volta che vedo così tanta gente ronzarmi intorno con una tale frenesia. Si palesa persino un collaboratore dell’imprenditore “illuminato”che ha comprato sottobanco la nostra fabbrica da Carlo. Per capirci quello che in teoria aveva rilevato la società, occultamente.  Vestito di nero, con le mani congiunte come i preti, potrebbe essere un andreottiano, se non fosse fuori tempo. Parla fregandosi le mani di “umanità”, “che siamo tutti esseri umani”, di “amicizia”, e continua a ripetere che “noi non ci siamo mai visti, che lui è venuto in veste ufficiosa. Che sta aiutando Carlo perché è un suo amico”. Io conosco gli amici del Ciccio e questo non l’ho mai visto prima. Dopo una specie di omelia mal riuscita arriva al dunque: chiedermi di andare a ritirare la lettera in banca. Scusate tanto, ma un mese prima, quando ripetutamente chiedevo spiegazioni dove eravate tutti? A ingozzarvi di cadaveri? 

“Mi dica, signor… se lei scoprisse che sua figlia ha una fideiussione da 840.000 euro che lei non sa nemmeno di avere firmato, lei, che cosa farebbe?”.

Il prete falso/sicario abbassa la testa e con un sorriso da vomitare:

“Mi ammazzerei”.

“Io no, ma la lettera non la ritiro.”

Finalmente Carlo si presenta dall’avvocato. È l’imprenditore “illuminato” che dopo avere capito che non ho nessuna intenzione di andare a sbattere contro un muro di cemento armato perché me lo dice Charlie, si è incazzato e lo ha obbligato a venire per cercare di risolvere la situazione e convincermi.  Alla firma dell’accordo, in cui si era stabilito che il fallimento sarebbe dovuto cadere addosso a me, quel simpatico babà di merda mentre metteva in ordine le mazzette di soldi nella sua ventiquattrore, e li ricontava compiaciuto, rassicurava l’”illuminato”:

“Non preoccupatevi. A mia sorella ci penso io. Glielo dico io che deve rinunciare all’eredità. Non ci sono problemi, state tranquilli, tanto quella ha solo in mente le malattie… e poi non sospetta niente.”

Infatti.

Ma io li capisco. Quando si ha a che fare con il Ciccio, non c’è mai niente che finisce bene. E’ matematico. Ci sono cascati anche loro come tutti.  Insomma lui arriva lì per fare un estremo tentativo di convincimento a mollare l’eredità e a tenermi la fideiussione da ottocentoquarantamila euro, praticamente a chiedermi di morire per lui. Dovrebbe spiegarci quello che hanno intenzione di fare, come gli avevamo chiesto già da tempo, ma ovviamente non vuole farlo. Ci ritroviamo in una stanza io, il Ciccio, il suo avvocato, il mio avvocato.

L’avvocato del Ciccio comincia un po’ tentennante a illustrare la situazione ma inciampa subito in un:

“Il padre e la sorella sono stati estromessi”.

Carlo, il Ciccio, come al solito vestito da straccione, lo fulmina e gli dice “Adesso parlo io”. Comincia una sorta di dialogo tra sordi. Lui continua a ripetere fino allo sfinimento:

 “Mia sorella deve ritirare la lettera alla banca e tenersi la fideiussione”.

Il mio avvocato gli risponde sempre con la stessa domanda:

“A che pro?”.

Lui risponde:

 “Per aiutarmi”.

 Il mio avvocato ancora:

“A che pro”.

 Sembra una monotona partita di tennis. Ogni tanto scappa qualche rovescio che sembra movimentare la partita ma è un fuoco di paglia: il Ciccio nega che ci sia un nuovo socio, nega che esista alcun tipo di piano. Insomma racconta una serie di balle senza soluzione di continuità. 

Ormai non sapendo più che cappello mettersi in testa, vengo chiamata a rapporto anche dal venerabile massone, nonché commercialista e regista di questa bella commedia.  Sono sicura, ripeto, che nonostante l’età sia uno che tra le sue pratiche, si fa ancora un sacco di seghe. E tutti questi piani geniali sono il frutto di un delirio post eiaculazione.  Lui con i suoi giochi da adolescente mai cresciuto, che si diverte con la vita della gente, mi convince a ritornare in banca per cercare una mediazione. Ci vado anche perché io voglio aiutare Carlo, ancora non sono consapevole di quello che sta facendo, non conosco il piano, sono frastornata.

In quello scantinato, dove si decidono le sorti delle imprese, mi ritrovo di fronte al direttore a al funzionario più isterico che mai. Non hanno alcuna intenzione di mediare questa situazione. Chiaro.  Vogliono che io ritiri quella lettera e basta. Il funzionario urla e si dimena sulla sedia. A un certo punto si alza:

 “Sì, perchè secondo te mi sono messo lì a falsificare la tua firma con la carta carbone”  e appoggia le mani alla parete imitando il gesto di copiatura. Guardo questa esibizione grottesca e mi rendo conto che ha una tale dimestichezza nella modalità di esecuzione, che sicuramente lo ha già fatto nella realtà parecchie volte. Io non avrei avuto alcuna idea di come fare a copiare una firma. Perché poi insiste a darmi del tu. Lo show si conclude con un arrogante:

“Per uscire spingere il bottone rosso sulla destra”.

Le SS non erano poi tanto diverse da questi. La mia capacità di credere che la verità vinca, comincia a vacillare sempre di più. Per la prima volta tocco con mano come la falsità possa essere istituzionalizzata e legale: ricevo una lettera in cui si dice che io durante il colloquio con loro avrei confessato che la firma era la mia. Piango perché mi sento sopraffatta e incapace di difendermi da queste accuse assolutamente false. Mi stupisco di come sia possibile che gli Istituti che dovrebbero tutelare i tuoi interessi possano permettersi di inventare delle simili falsità. Vado a parlare con Carlo. Lo trovo dal depuratore davanti alla fabbrica. “Volevo solo dirti che ti voglio bene, ma ho paura che questa storia finirà male. Devi solo dirmi la verità, non ti chiedo altro. Non capisco cosa sta succedendo…Faccio quello che vuoi ma prima voglio vederci chiaro. Lo sai che ti ho sempre aiutato e secondo me ti stai fidando di persone che un giorno o l’altro ti fregheranno”.

 Mi guarda un po’ stupito e mi risponde abbassando la testa :

“Beh anch’io ti voglio bene… e a me non mi frega nessuno”. È sulle spine, lo sento. Sono mesi che quando mi avvicino a lui sento la sua insofferenza. Parla a monosillabi.

scromata

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